di Dora Vedova
Camille Claudel, scultrice francese, visse a cavallo tra Otto e Novecento. Probabilmente proprio per aver vissuto in quell’epoca, passò gli ultimi trent’anni della sua vita rinchiusa in manicomio, pagando in questo modo la sua libertà di essere una donna artista, di aver amato senza sposarsi, di aver seguito la sua strada.
Camille, tuttavia, ebbe davvero dei problemi psichici. Per molto tempo si è pensato che non fosse così e che fosse stata vittima solo del “buoncostume” di una società e di una famiglia ottuse; ora sappiamo che gli eccessi di paranoia e i deliri ci furono davvero, e che a un certo punto la sua “strana” e solitaria vita di artista è deragliata.
Colette Fellous, romanziera e autrice radiofonica, investiga sul destino di Camille nella collana “Vite” delle Éditions Fayard. Con piglio risoluto e ricerche quasi febbrili, in questo saggio che si legge come un romanzo, sembra voler offrire a Camille sola, pensierosa, sognatrice e malinconica come le sue statue, il sostegno psicanalitico che non ha potuto avere.
Camille Claudel è molto più di una biografia: l’autrice interroga i detti e i non detti di una vita gloriosa e devastata, setacciando gli archivi, leggendo e rileggendo le lettere, studiando la genesi delle opere e scrutando le fotografie. La sua sensibilità è tutta protesa a cercare di capire come e perché l’esistenza di questa donna votata al sogno e alla bellezza sia diventata un incubo. È proprio questa la parola che Camille usa per descrivere la sua vita dopo vent’anni di manicomio, in una lettera in cui non sembrano più esserci i segni della pazzia. Dal saggio emerge infatti che Camille, nonostante l’internamento coatto, ebbe dei momenti di lucidità, ma la risolutezza dell’anziana madre le impedì di riprendersi e di uscire, imponendole inoltre di non vedere nessuno al di fuori dei parenti (la stessa madre e la sorella, che non la videro mai dopo l’internamento, e il fratello Paul).
Paul Claudel, uomo di lettere e diplomatico, era molto legato a Camille sia come sorella maggiore sia come donna di arte e cultura, ma questo non gli impedì di allontanarsi da lei nel momento della malattia, di renderle visita raramente fino a non vederla più né assistere al suo funerale quando morì per indigenza e malnutrizione sul finire della Seconda guerra mondiale.
L’abbandono crudele da parte della famiglia non fu il solo di cui Camille Claudel ebbe a patire. Un altro ancora più doloroso e a cui forse è da imputare la perdita di senno fu quello da parte del suo maestro e amante Auguste Rodin. Non si è trattato propriamente di un abbandono ma della mancata promessa di sposarla e delle reiterate richieste di abortire. Nonostante si siano amati e stimati molto, fu Camille a lasciarlo per liberarsi dell’impronta del maestro e poter trovare il proprio stile.
Lo sguardo singolare di Camille Claudel, triste e intenso, di cui Rodin sempre subì il fascino («i suoi occhi così blu, tristi e belli»), è lo stesso che turba e commuove Colette Fellous, il tramite attraverso cui riesce a immedesimarsi e a condividere slanci e tormenti di quest’«eroina separata dai suoi, alla maniera di Ulisse», a comprenderne la fragilità, la volontà e la follia che può colpire chiunque, a tracciare la difficoltà di scolpire la propria vita.