di Dora Vedova

Maya Ombasic nasce a Mostar, in Bosnia Erzegovina, nel 1979. A 12 anni fugge con la famiglia dalla guerra: Chiasso, Basilea, Ginevra sono le tappe di 7 anni vissuti da immigrati clandestini. Non sono più tornati nel loro paese: «ora in Canada ci sentiamo a casa, ma si rimane rifugiati per sempre»1.

La filosofia e la cultura ricevuta dal padre pittore le hanno salvato la vita, fornendole un’ancora di senso e quell’evasione che le ha permesso di prendere le distanze da una brusca deriva della vita. Lo studio della civiltà greca è stato anche un modo per relativizzare la condizione della sua famiglia, perché proprio il bacino del Mediterraneo è stato insieme culla di vita e teatro di tutti i conflitti.

Di questo parla il romanzo autobiografico Mostarghia, che l’autrice dedica al padre e che ha per lei il valore terapeutico di esorcizzarne la perdita. Morire di nostalgia per quella Jugoslavia perduta – crocevia di popoli, culture e religioni – significa incarnare appieno quello che Ombasic chiama l’anima slava: qualcosa di bello e difficile con cui convivere, di tragico e comico a un tempo, un groviglio di sentimenti opposti e laceranti che Ombasic, cinefila e regista essa stessa di corti e documentari, ritrova nei film di Kusturica.

Autrice di romanzi e poesie, insegna la filosofia continentale, cioè il pensiero recente di intellettuali europei come Derrida, pensatore oscuro per molti, ma non per lei:

«Il suo destino mi parla. Il francese, che non considerava la sua lingua madre, è diventato la sua sola lingua, ma mai la sua vera lingua. Mostra come ricostruirsi dai fantasmi dell’io che ci portiamo dietro e che ci sfuggono continuamente».

Nel suo caso la lingua madre è il serbo-croato, ma ha poi imparato il francese, l’inglese e lo spagnolo. Leggere Derrida l’ha aiutata a essere molteplice e a rendere la molteplicità un valore positivo. La scelta delle lingue e di vivere in Québec sono state la sua libertà. Quand’era in Svizzera passava la frontiera illegalmente per andare a Parigi a fare il giro dei musei. Era una sfida. Ma per avere accesso alla cultura, alla libertà, serve prima un riconoscimento civico: è così che l’esilio subìto diventa un’emigrazione scelta.

Riguardo all’Europa si dice pessimista:

«L’eurofobia diffusa e il ritorno dei nazionalismi mi inorridiscono. Ho imparato che quando si parla di “essenza” di un popolo si è già nell’esclusione. La situazione è degenerata esattamente così in ex Jugoslavia».

L’emigrazione di massa dei nostri giorni non può che ricordarle la sua storia. L’Europa e l’America non sono per forza il sogno di tutti:

«Se non fosse scoppiata la guerra nessuno di noi sarebbe partito, stavamo bene, eravamo felici. Allo stesso modo la maggior parte di questi migranti lasciano i loro paesi, i loro affetti, le loro cose, per forza. Chi se ne andrebbe in queste condizioni, se non fosse spinto dalla guerra o dalla necessità!? Lo sguardo che ho su di loro è esattamente lo stesso che avevo su di noi 25 anni fa. È l’eterno ritorno dell’uguale».

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1Per le fonti dei virgolettati si veda quest’intervista e l’articolo dedicato sulla rivista letteraria Lire, n. 455, 2017.