di Dora Vedova
Tutto ha inizio un giorno di febbraio del 1968 alla Gare du Nord di Parigi: il diciannovenne Didier Blonde, mentre cammina con passo spedito, si sente prendere per un braccio. Voltandosi, scopre che a trattenerlo è François Truffaut: il regista stava girando una scena di Baci rubati in mezzo alla folla e il ragazzo era entrato nel campo visivo troppo velocemente. In seguito a questa intromissione fortuita, Didier viene ingaggiato come comparsa nel film, dove incontra Judith, figurante anch’essa, con cui ha un flirt tanto intenso quanto fugace. Fin qui l’incipit autobiografico.
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Poi si passa al racconto, dove l’immaginazione prosegue e si interseca con la realtà. Dopo quasi cinquant’anni, Blonde – divenuto ormai uno scrittore – si fa prendere dalla curiosità: vuole sapere che fine ha fatto quella ragazza che studiava teatro, e se la loro breve storia ha lasciato delle tracce. Domande come queste lo portano non a caso a essere soprannominato “detective della memoria”. Ma l’interrogativo di fondo, leitmotiv di tutta l’opera di Blonde, è esistenziale: siamo davvero gli attori della nostra vita o solo delle comparse?
Nei suoi romanzi, saggi o racconti, Blonde è sempre all’inseguimento di qualche persona o personaggio del passato, sulle tracce del loro passaggio, di ciò che di loro è rimasto: sotto la lente delle sue ricerche meticolose e appassionanti cadono vecchi attori e attrici dimenticati del cinema muto, fantasmi, figure sbiadite di persone celebri, anonime o irreali.
Didier Blonde ama partire da spunti reali ma al contempo sfuggenti, quasi inconsistenti. Forse proprio a partire da quel lontano giorno in cui è piombato nel set di Truffaut, tutto ciò che è effimero, passato, trascorso, lo incuriosisce al punto da voler scavare nella storia come un detective dell’effimero. Ma ciò che davvero gli importa non è risolvere l’indagine (Didier non ritroverà Judith), bensì la ricerca stessa.
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Dopo il Premio Renaudot 2015 con Leïlah Mahi 1932, saggio-inchiesta scaturito dalla toccante immagine di una donna sepolta al Père-Lachaise, Didier Blonde esce per Gallimard con Le Figurant (La comparsa): un ottimo pretesto per ricordare Truffaut, il suo cinema e il suo tempo, insieme alle avventure di Antoine Doinel da I quattrocento colpi fino a L’amore fugge. I ricordi personali dell’autore si sovrappongono a quelli corali di un’epoca, ripercorrendo i quartieri frequentati dal regista, tra Pigalle e Place de Clichy. Se poi l’epoca è il ’68, i ricordi sono tanti e intensi.
I libri di Didier Blonde si iscrivono nella particolare topologia parigina dei caffè, spazio in cui realtà e finzione si incrociano, trasformando il mondo in un teatro. Vera e propria scena ossimorica dell’essere soli con gli altri, luogo interiore ed esteriore insieme, da cui osservare il mondo rimanendo rivolti verso se stessi: scorrono intanto sotto i nostri occhi le comparse della vita, proprio come in quel film di Truffaut di cinquant’anni fa!