di Dora Vedova

La rivista francese Nouvelle Quinzaine Littéraire ha dedicato un’ampia riflessione sui meccanismi della crudeltà, concludendo che sono e rimangono un enigma. Nel suo intervento, inedito in Italia, il filosofo Michel Juffé ha provato a capirci qualcosa partendo dalle origini linguistiche.

Il latino crudelitas (durezza, crudeltà, disumanità) deriva da crudesco (non digerire, diventare violento), crudus (sanguinante, non cotto, ferita non cicatrizzata, lettura indigesta, duro, insensibile) e cruentus (inondato di sangue, sanguinario, crudele).
La crudeltà deriverebbe dunque da un’indigestione causata da un cibo crudo, avariato o preparato male. La cattiva digestione renderebbe violenti, fino a far scorrere il sangue. Non assimilare un alimento, una dottrina, un’abitudine porterebbe dunque a diventare avidi, astiosi, rachitici. Rimane però da capire cosa provochi il cattivo funzionamento dell’apparato digerente.

Quest’interessante prospettiva etimologica trova riscontro nell’analisi di Freud, secondo cui la non digestione metaforica di una grave mancanza d’affetto nel bambino può portarlo da adulto a sviluppare una tendenza alla crudeltà come sfogo di una tensione (dolore) insopportabile. Ma la crudeltà è comunque insita in ciascun essere umano, è congenita, deriva dall’impulso di dominare e può venir fuori anche senza un motivo preciso. Resta quindi ancora un enigma.

In letteratura la crudeltà era di moda in Francia negli anni ’70. Si leggevano Sade, Bataille, Artaud, Genet, che affascinavano i lettori con racconti di trasgressioni inaudite e facevano tremare di paura. Oggi le cose sono diverse, forse perché la crudeltà è più visibile e all’ordine del giorno. L’imperativo sembra ora essere quello di capirla. Nel volume del 2016 Les Figures de la cruauté : Entre civilisation et barbarie (Le figure della crudeltà: tra civiltà e barbarie) vari professionisti cercano una spiegazione: psichiatri e psicanalisti, politici, giuristi, sociologi, filosofi, artisti e scrittori.
Il testo si approccia in particolare alla crudeltà del fenomeno più vasto e pauroso dei nostri giorni: l’estremismo islamico, arrivando ancora una volta alla conclusione che ciò che ci turba davvero è l’incomprensione, l’incapacità di avere delle risposte e quindi di agire di fronte a una crudeltà che pietrifica. Sull’argomento non manca del resto l’autorevole lavoro di Hanna Harendt, che negli anni ‘60 rifletteva sull’ormai celebre banalità del male.

La crudeltà è sempre esistita e, come ogni fattore umano, viene esplorata dalla letteratura, che è forse il mezzo migliore per illustrarla. Roald Dahl nei suoi racconti per adulti dipinge un’umanità che mente, bara e inganna. Dietro la facciata della rispettabilità di relazioni sociali tra vicini, parenti e amici, si muovono sentimenti di sopraffazione che non seguono affatto i dettami della morale. Dahl ci fa sorridere, ma la chiave umoristica e fantasiosa in lui imprescindibile ha l’effetto di accentuare ancora di più l’orrore. Se per spaventare i bambini deve inventare storie di streghe e giganti, per gli adulti basta osservare le relazioni umane, storie di ordinaria crudeltà che raggelano e che spingono alla riflessione. Del resto nel GGG l’aveva pur detto a Sofia che «gli adulti non sono proprio noti per la loro gentilezza».