di Dora Vedova

“Traduttore, traditore”, “lost in translation” sono cliché immancabili quando si parla di traduzione. Nel suo libro Éloge de la traduction. Compliquer l’universel (Elogio della traduzione. Complicare l’universale) – stranamente non ancora pervenuto in Italia –, Barbara Cassin affronta l’annosa questione della traduzione, ribaltando alcuni punti di vista.

Dall’alto del Logos greco, paradossale incarnazione dell’imperialismo linguistico (e culturale) in virtù del quale tutti gli altri sono barbari, si arriva con Humboldt a osservare che ogni lingua esprime una visione del mondo. Al Logos universale Cassin contrappone la molteplicità, spingendo e tifando per la traduzione. A costo di “tradire” e di “perdersi”.

La traduzione celebra la differenza ed è vettore di scambio tra i popoli: a cominciare dalle grandi civiltà del Mediterraneo, con la circolazione dei testi dal greco all’arabo e al latino, per finire (e continuare) con lo scambio di parole tra i Paesi di tutto il mondo.

Barbara Cassin è filosofa, filologa, ellenista, germanista ed essa stessa traduttrice. Basandosi sulla sua esperienza, afferma che ogni traduzione è una riappropriazione-visione di un’opera. Autori come Poe, Baudelaire, Pessoa, Artaud, Mallarmé sono stati traduttori prima che poeti e proprio traducendo si sono formati.

Barbara Cassin insieme a Florent Guénard durante la conferenza Après Babel, traduire, in occasione del ciclo di incontri della Cátedra Internacional Adolfo Couve, in Cile. (Foto CC Isabel Herrera)

Tradurre è una pratica personale, intima e culturale. Non esiste “la traduzione”, ma sempre tante possibili traduzioni: esclusa l’utopia di un testo perfettamente fedele, ogni buona traduzione evidenzia un aspetto di ciò che perfino nel testo di partenza potrebbe essere nascosto. Una lettura esaustiva dei testi antichi e di quelli sacri dovrebbe prevedere una pluralità di traduzioni.

Cassin vede la traduzione come una forma di energia sempre in movimento, esattamente come la lingua, come un’opera mai chiusa. È un lavoro che procede per ipotesi, e alcune di queste ipotesi – per qualcuno, rispetto a qualcosa, in un dato momento – possono essere migliori di altre. Ci sono ventagli che si aprono e piste che si chiudono nella progressione della traduzione, nella composizione delle parole.

Quando ci si trova di fronte alla necessità di tradurre, ci si rende conto che la propria lingua non è l’unica, non è il centro dell’universo. La traduzione dunque abbatte la questione dell’universale e introduce quella dell’alterità, del diverso.

La traduzione affonda le sue radici nella storia, ma non smette di essere una grande sfida. In risposta alla freddezza della comunicazione rapida del globish (global english), lingua unica, impoverita e artificiale, la traduzione mantiene le lingue e le culture vive, è lo sforzo di cogliere e accogliere le differenze, di trovare un’armonia nella moderna vita globalizzata.

Tradurre porta a vivere uno stato metafisico e liminare. Significa darsi il tempo di “stare tra” due lingue, due culture, due visioni del mondo, sospesi tra la realtà e le parole per descriverla.
Non tutto è traducibile, per fortuna. Ed è proprio questo il bello; tutto ciò che si aggiunge o si perde scivolando da una lingua all’altra sono le parole preziose che ci mancano.